Tutto inizia su un palco. Quello dei David di Donatello. Geppi Cucciari scherza con il ministro della Cultura, Alessandro Giuli, ironizzando sul tono solenne del suo intervento. Elio Germano, poco dopo, alza il livello: accusa il governo di trattare la cultura come un clan, preoccupato più di “piazzare i suoi uomini” che del bene collettivo. Giuli incassa, ma solo per qualche ora: il giorno dopo, in un evento targato Fratelli d’Italia, restituisce colpo su colpo. Parla di “comici della sinistra” rimasti senza intellettuali, liquida Germano come uno che “ciancia in solitudine” e difende l’idea che il ministero sia stato restituito “al popolo della cultura”. Lo scontro, apparentemente mondano, è in realtà la sintesi perfetta di un progetto più profondo: trasformare la cultura in terreno di scontro ideologico. Non per il dibattito, ma per l’egemonia.
Nel progetto culturale di Fratelli d’Italia c’è tutto tranne la cultura: c’è il potere, il rancore, l’occupazione, l’autocelebrazione. E c’è una lettura sgangherata di Gramsci, svuotato dei suoi obiettivi e ridotto a un utensile per l’egemonia al contrario. La polemica scoppiata ai David di Donatello, con Elio Germano che ha parlato di un “clan” che piazza i suoi uomini, e con il ministro Giuli che ha replicato insultando “i comici della sinistra”, è solo l’ultimo episodio in una strategia più ampia: prendere la cultura a bastonate e riscriverla con la biro di partito.
Il progetto è dichiarato, ma travestito da liberazione. Giorgia Meloni parla apertamente di voler spezzare la presunta “egemonia progressista” nata nel dopoguerra. Alessandro Giuli promette di portare il sacro, il mito e il “popolo” nei palazzi della cultura, contro i “salotti” e gli “intellettuali di sinistra”. Federico Mollicone, responsabile cultura di Fratelli d’Italia, rilancia con l’idea di costruire un “nuovo immaginario nazionale” fondato su identità, merito e patriottismo. Il lessico è epico, ma le azioni sono amministrative: nomine, riforme, epurazioni.
Il volto politico del patrimonio
Dalla Rai alla Biennale, dal MAXXI al Centro Sperimentale di Cinematografia, il metodo è sempre lo stesso: sostituire chi c’era con chi
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