Diario di bordo - di Giulio Cavalli

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Il carcere come pretesto, la morte come sentenza
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Il carcere come pretesto, la morte come sentenza

La vicenda di Habashy Rashed Hassan Arafa e la criminalizzazione dei migranti in Italia. E poi la consueta rassegna stampa

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Giulio Cavalli
mar 26, 2025
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Habashy Rashed Hassan Arafa è morto il 21 marzo 2025, primo giorno di primavera. L’Italia non l’ha mai davvero visto. Ha conosciuto solo il suo carcere. Lo chiamavano Ahmed. Aveva 52 anni, veniva dall’Egitto. È sbarcato a Roccella Jonica il 19 ottobre 2021. Il giorno dopo era già nel carcere di Arghillà, a Reggio Calabria, accusato di essere uno scafista. L’articolo 12 del Testo unico sull’immigrazione – introdotto nel 1998 da un governo di centrosinistra – ha funzionato ancora una volta da stampo repressivo. Bastava avere un passaporto, parlare arabo, stare vicino al timone. Non servivano prove, bastava una fretta compatibile con le urgenze mediatiche e politiche.

Un processo senza voce né difesa

Il tribunale di Locri lo ha condannato in primo grado il 12 maggio 2021, in appello il 17 gennaio 2023 e in via definitiva il 2 giugno dello stesso anno. Un processo-fotocopia. Senza interprete. Senza possibilità di parlare. Con un difensore d’ufficio di cui non ricordava neppure il nome. “Solo che aveva i capelli lunghi”, ha detto una volta. Ha scontato quasi l’intera pena senza essere mai ascoltato. Fino a gennaio 2025 nessuno si è accorto che stava morendo.

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Il 7 marzo sarebbe stato il suo ultimo giorno da detenuto. Ma a gennaio un'ecografia tardiva ha scoperto un tumore al pancreas al quarto stadio. Non c’era più nulla da fare.

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