Dalla DEI al pluralismo: l’università americana nel mirino di Trump
Sotto la minaccia dei tagli federali e delle crociate ideologiche, i campus cercano rifugio in un pluralismo che promette dialogo ma svuota i conflitti. E la consueta rassegna stampa
Nel nuovo paesaggio accademico statunitense, la sigla DEI (diversity, equity, inclusion) è diventata il bersaglio principale della guerra culturale. Ciò che fino a pochi anni fa rappresentava una bussola etica per le università americane – ovvero l’impegno a garantire equità e rappresentanza a gruppi storicamente esclusi – oggi è considerato da molti un marchio tossico, da estirpare. E così, negli stessi atenei che un tempo si vantavano delle loro politiche inclusive, cresce ora l’interesse per un concetto alternativo: il pluralismo.
Un cambio di paradigma sotto minaccia
Il cambio di rotta non nasce da una riflessione accademica spontanea, ma dalla pressione crescente del governo federale. Con la rielezione di Donald Trump, il Dipartimento dell’Istruzione ha avviato indagini contro decine di università accusate di violare i diritti civili: alcune per presunta antisemitismo, altre per la presenza di atleti transgender, altre ancora per avere programmi considerati “divisivi”. I finanziamenti federali sono diventati lo strumento principale di coercizione. Columbia University ha perso 400 milioni di dollari; l’Università della Pennsylvania si è vista congelare 175 milioni.
Il messaggio è chiaro: se promuovi la diversità, perdi i fondi. E così, molti rettori si stanno rifugiando in un nuovo lessico più appetibile per la politica: il “pluralismo”, termine più neutro, che promette dialogo tra posizioni opposte, senza apparentemente privilegiare nessuna identità. A fare da apripista è stata la filosofa di Harvard Danielle Allen, che ha proposto un modello centrato sulla coesistenza, più che sulla redistribuzione. Ma il rischio è che dietro la parola pluralismo si celi un ritorno all’universalismo neutro, che ignora le disuguaglianze strutturali.
Il caso Utah e la legge H.B. 261
Il caso simbolo è quello dell’Università dello Utah,
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